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CLIMA DI CRISI

di Marzio Galeotti per www.lavoce.info

Quali sono le conseguenze della crisi economica per la causa dell’ambiente? Difficile dirlo a priori, perché molteplici sono gli effetti e le interrelazioni al livello di sistema economico. Ma anche se la tensione sul problema dovesse calare, compito del governo e delle politiche è di contrastare questa tendenza. Dopotutto, prima o poi, la crisi passerà, mentre il problema del clima resta. E così pure gli impegni internazionali da onorare. Meglio allora pensare a come agire, secondo le linee di un piano di intervento e rilancio verde.

Il 2008 sembrava un anno speciale per la lotta ai cambiamenti climatici. Il pacchetto europeo sul clima annunciato a gennaio attraversava una fase di discussione turbolenta, durante la quale si era distinto in negativo il nostro paese, ma non tale da comprometterne l’approvazione finale. Dall’altra parte dell’oceano, il candidato democratico Barack Obama viaggiava verso un’elezione alla presidenza degli Stati Uniti che gli eventi successivi avrebbero reso trionfale, sulla base di una piattaforma che della lotta agli sprechi energetici e sul clima aveva fatto uno dei pilastri principali.
Ma poi sul finire dell’estate era arrivata la crisi, una crisi dalla virulenza senza precedenti. Una crisi che dalla sfera finanziaria si era trasferita all’economia reale e che a fine anno cominciava a fare intravvedere le sue pesanti conseguenze. Era una crisi di fiducia verso gli altri
intravvedere le sue pesanti conseguenze. Era una crisi di fiducia verso gli altri operatori e una crisi di sfiducia verso il futuro che inceppava il meccanismo del credito, rallentava significativamente l’economia, riduceva i redditi e accresceva la disoccupazione. Le pubbliche finanze venivano sottoposte a tensioni crescenti: a fronte di minore gettito fiscale aumentavano le richieste di intervento a favore di banche, industrie e famiglie. Si affacciava un nuovo statalismo che dilatava i deficit pubblici e nel lessico politico scompariva la parola “tassa”, per far posto a un’altra, “sussidio”.

IL CLIMA NELLA CRISI

E la lotta ai cambiamenti climatici? Quali gli effetti della crisi economica sul clima e sulla politica del clima? La lotta al clima è percepita, a torto o a ragione, come un costo: è un atteggiamento diffuso tra i decisori politici dal momento che i costi sono più vicini, visibili e certi dei benefici. Ed è difficile negare che la profonda crisi economica abbia l’effetto di attenuarne, e di molto, la serietà e l’urgenza.
Prima di affrontare le reazioni della politica potremmo però provare a interrogarci su quali effetti la crisi economica possa avere su energia e clima, in assenza di interventi. Diciamo subito che una risposta nitida è difficile da ottenere, in quanto molteplici appaiono gli effetti, anche di segno opposto, cosicché l’economista ben presto osserverebbe come una disamina in qualche modo soddisfacente sarebbe possibile solo con l’ausilio di un modello di equilibrio economico generale capace di tenere traccia degli effetti principali della crisi.
In assenza di simili strumenti, con mero intento illustrativo, potremmo anzitutto guardare ai mercati dell’energia, a cominciare dal petrolio. Sul mercato internazionale i capitali abbandonano frettolosamente il mercato dei futures, mentre il rallentamento della domanda globale innesca potenti aspettative al ribasso, che la volontà dell’Opec di restrizione dell’offerta non è riuscita finora a contrastare. Il prezzo crolla e le fonti fossili di energia (il petrolio porta con sé il gas) tornano a essere competitive, mentre le entrate fiscali su combustibili e carburanti si riducono (chi si ricorda più di speculazione tremontiana e Robin tax?).
Se la bolletta energetica per le famiglie ne risente in positivo, ancorché in misura più lenta, il riequilibrio dei prezzi relativi delle fonti energetiche rende relativamente più costose quelle alternative, rinnovabili in testa. Sulla carta questo fatto, unito alla scomparsa del credito bancario, rende più difficoltosa l’auspicata espansione dell’industria della produzione di energia rinnovabile e dell’efficienza energetica. Se è vero che l’installazione di impianti di generazione di elettricità da eolico e solare, così come interventi di risparmio ed efficienza energetica come quelli sulle abitazioni e gli edifici pubblici e privati, sono intraprese a minimo rischio, resta il fatto che il credit crunch sembra generalizzato.
Un’implicazione di quanto appena detto è che nel nostro paese il nucleare è “rimandato a settembre”. Ciò appare già abbastanza chiaro a livello di dibattito parlamentare: troppe incognite sui tempi e sui costi. Altro che dichiarare che il nucleare è la soluzione per uscire dall’impasse del contenzioso russo-ucraino che con puntualità si ripropone con orizzonte di un anno, massimo due.

DALLE TASSE AI SUSSIDI

Un altro presumibile effetto è lo spostamento delle politiche dalle tasse ai sussidi: questo non fa un favore alla causa del clima, in quanto il principio secondo cui “chi inquina paga” non lascia molto spazio alla fantasia. Ma i tempi sono quelli che sono e i sussidi hanno il pregio di contribuire ad attenuare la recessione e sostenere prima o poi la ripresa. Ma se le tasse ambientali, come tutte le tasse, incontrano una difficoltà nell’accettabilità politica, dall’altro lato procurano gettito. Esattamente l’opposto accade con i sussidi. Specie se questi ultimi prendono verosimilmente direzioni diverse dal finanziamento dell’innovazione in tecnologie pulite e verdi, a causa dell’elevata incertezza circa tempi ed esiti che, pur nella loro cruciale importanza, le caratterizza.
Il rallentamento generalizzato dell’economia induce spontaneamente comportamenti volti al risparmio, a economizzare sui consumi e ciò riguarda anche l’energia, dai trasporti agli utilizzi di elettricità. Naturalmente, qui la questione riguarda l’elasticità al reddito dei consumi energetici, che sembra evidenziare asimmetrie a seconda che si tratti di aumenti ovvero riduzioni. In generale, comunque, si può affermare che il rallentamento della crescita a livello globale porterà a un rallentamento spontaneo nella crescita delle emissioni inquinanti, di gas-serra comprese.

SOTTRARSI DALLA LOTTA?

Il problema più serio che la crisi economica pone per la lotta al clima è l’attenzione che viene distolta dal tema, la tensione che si riduce. Il risultato è che l’emergenza climatica cessa di essere tale di fronte all’emergenza del credito, dei redditi, dell’occupazione e solo una forte volontà politica può impedire questa per certi versi comprensibile tendenza.
Dovremmo dunque abbandonare la lotta? Dare la partita per persa? Rinunciare a prendere l’iniziativa? Ci si chiede se l’ambiente è favorito dalla crisi: in realtà la risposta dipende da noi, dalla nostra volontà – e in qualche misura dal coraggio – di afferrare per le corna il toro della crisi per dirigerla verso un’uscita ad alto tasso di efficienza energetica e basso tenore di carbonio.
Vi sono tre fondamentali ragioni per cui non possiamo e non dobbiamo rimandare l’intervento a un futuro più favorevole (se mai esiste). La prima è che prima o poi la crisi economica passa, mentre il problema climatico no. Anzi, con l’inazione è destinato a diventare ancora più grave. Se le emissioni (anche) quest’anno si ridurranno, sarà comunque un fatto transitorio se non sarà il risultato di politiche attive e consapevoli. Il prezzo del petrolio tornerà a crescere e tenderanno a riproporsi le condizioni precedenti alla crisi, se non avremo colto questa cruciale occasione per presentarci all’uscita dal tunnel in condizioni diverse.
La seconda ragione è che le obbligazioni per il nostro e altri paesi sono sempre lì. Kyoto è ineludibile e così lo sono gli impegni del pacchetto europeo. Dopo la battaglia sul pacchetto, vinta a metà (o vinta dall’industria, ma non dal paese), non abbiamo più sentito nulla dai ministeri interessati su come si pensa di onorare gli impegni assunti. Stupisce un po’ di leggere che si vagheggia di rivedere i termini dell’accordo in anticipo sui tempi previsti (2010), quando in realtà la clausola di revisione non è stata introdotta per tornare indietro, quanto per verificare se vi siano le condizioni per rendere l’impegno di riduzione delle emissioni ancora più stringente. In ossequio al principio di precauzione, i costi da sostenere potrebbero essere tanto più alti quanto più tardiamo a intervenire. Mentre ancora siamo in attesa di sapere come si intende operare per la riduzione delle emissioni per quei settori – trasporti, residenziale, commercio, agricoltura – non coperti dal Sistema europeo di scambio dei permessi di emissione. O si ha il coraggio di pronunciare la parola tassazione, ma crucialmente specificando che si tratterebbe di una riforma dell’intero sistema in senso ambientale, che non porti a nuove tasse, corredandola da una clausola di impiego del gettito a favore della detassazione del lavoro e dell’incentivazione alla ricerca e sviluppo. Oppure si deve spiegare dove il Tesoro reperirà i fondi per acquistare i crediti d’emissione necessari per rientrare nei limiti degli impegni assunti.
Naturalmente, e questa è la terza ragione, si può e si deve intervenire anche sostenendo l’economia con incentivi e sussidi. Qui Obama è d’esempio: incentivi e sussidi servono a contrastare il ciclo economico avverso, ma è cruciale cogliere questa occasione di intervento dello Stato nell’economia per iniziare a cambiare la struttura della produzione e dei consumi in direzione della sostenibilità. Questo significa la concessione di aiuti condizionati e mirati, come quelli che il governo ha faticosamente deciso a favore dell’auto e degli elettrodomestici, mentre meno si comprende, dal nostro punto di vista, l’intervento a favore dei mobili. Ma naturalmente molto di più si potrebbe e sarebbe necessario fare, a cominciare da tutte quelle opzioni a costo zero di riduzione delle emissioni negative costituite dai vari interventi di efficienza e risparmio energetico. In questo senso, abbiamo registrato il piano “obamiano” presentato dal segretario del Partito democratico Veltroni, di cui solo uno dei grandi quotidiani nazionali ha riferito, e capace secondo il proponente di creare (il famoso) milione di posti di lavoro nel giro di cinque anni. (1)
Sul fronte delle politiche domestiche è necessario essere lucidi e coraggiosi. Nonostante la generale crisi di fiducia, non deve venire meno la fiducia nella lotta al clima, ma è necessario cogliere questa occasione che potrebbe rivelarsi irripetibile, come osservano le Nazioni Unite con la proposta di un Green Global New Deal e Obama con il suo American Recovery and Reinvestment Plan. Qualche settimana addietro Francesco Giavazzi notava in un editoriale come questa crisi sia l’occasione propizia per procedere in maniera decisa a una riforma radicale del sistema delle relazioni industriali. (2) Quando l’abbiamo letto abbiamo pensato tra noi che poteva anche notare come questa sia anche una straordinaria occasione per offrire al paese un’ambiziosa fuga in avanti verso un obiettivo di sostenibilità comunque ineludibile.

(1)“Un milione di posti in 5 anni la svolta è la green economy”, La Repubblica 1 febbraio 2009.
(2)“Lo scambio virtuoso”, Corriere della Sera 8 gennaio 2009.


NON E’ SOLO UN COSTO IL PACCHETTO CLIMA

NON E’ SOLO UN COSTO IL PACCHETTO CLIMA

di Marzio Galeotti 10.12.2008

La distruzione dell’ambiente e della natura è secondo i sondaggi una delle principali preoccupazioni degli italiani. Ma ai livelli più alti delle istituzioni e della nomenclatura economica si continua ad avversare il pacchetto clima europeo, adottando l’ottica parziale dei suoi costi, senza il minimo riferimento ai benefici attesi. Certo, non facilmente quantificabili. Anche perché si tratta di una manovra complessa, con molteplici obiettivi, dalla lotta ai cambiamenti climatici all’indipendenza energetica. Un peccato non parteciparvi.

In attesa delle decisioni del Consiglio europeo dell’11-12 dicembre, che potrebbero essere risolutive, il pacchetto clima continua a tenere banco. (1) La presidente degli industriali italiani, Emma Marcegaglia, arriva a dettare la linea al governo, affermando che deve porre il veto all’approvazione del pacchetto nella sua attuale versione perché rischia di provocare la “scomparsa dell’industria manifatturiera nazionale e tra i primi a farne le spese sarebbero i settori del vetro, ceramica, carta e siderurgia”. (2)

GLI EUROPEI, I COSTI E I BENEFICI

Queste drammatiche dichiarazioni rivelano ancora una volta che, anche ai livelli più alti delle istituzioni e della nomenclatura economica, si continua ad adottare l’ottica parziale dei costi della proposta, senza il minimo riferimento ai benefici attesi. Secondo la Commissione europea, il pacchetto clima contribuirebbe a creare dai 600mila ai 900mila nuovi posti di lavoro nell’Europa a 27, a partire dai settori legati all’energia rinnovabile e dell’efficienza energetica, che attualmente occupano 150mila persone nell’Unione a 15, contro i 60mila occupati nel settore del cemento e di 30mila in quello dell’acciaio. Forse non bastano questi quattro dati per rendere conto del lato negletto del pacchetto clima. Insomma, se davvero l’industria scomparirà o se invece finirà per espandersi e rinnovarsi, dipende dalla valutazione dei costi del pacchetto clima al netto dei benefici che esso produrrà.
Il 22 novembre 2008 la Repubblica dava risalto a un sondaggio contenuto nel secondo rapporto Demos, curato da Ilvo Diamanti, secondo cui al primo posto nella graduatoria delle paure degli italiani stava, a ottobre 2007 come a novembre 2008, “la distruzione dell’ambiente e della natura”, mentre al secondo le preoccupazioni per “il futuro dei figli”. In precedenza, un sondaggiodi Eurobarometro aveva rivelato che tre quarti dei cittadini europei prendono molto sul serio il problema dei cambiamenti climatici: il 62 per cento lo considera uno dei problemi più gravi che il mondo deve attualmente affrontare. (3) L’Italia, insieme al Portogallo, si piazza penultima con il 47 per cento nella classifica europea, superando di poco il 45 per cento della Repubblica Ceca.
Un dato di particolare interesse è che quasi due terzi degli europei (il 63 per cento) ritiene che la tutela dell’ambiente costituisca un motore dell’innovazione tecnologica, più che un ostacolo al suo sviluppo (16 per cento). Il 64 per cento crede che sia necessario privilegiare la protezione dell’ambiente rispetto alla competitività economica, mentre solo 18 per cento  pensa l’opposto. Infine, circa i due terzi di coloro che hanno risposto al sondaggio ritengono che sia giusto prendere decisioni in materia ambientale all’interno dell’Unione Europea più che a livello nazionale.
Quella del pacchetto clima sembra quasi una battaglia personale del governo e dell’industria italiana e non si capisce se il resto del paese la condivide. In realtà, se l’esito dei sondaggi è veritiero, bisognerebbe concludere che deve esserci, nella pubblica opinione, una percezione dei benefici delle politiche a mitigazione dei cambiamenti climatici che i nostri governanti, per dolo o per colpa,  trascurano.

UN’ARCHITETTURA COMPLESSA

Esercitarsi in una valutazione quantitativa e monetaria dei benefici di un insieme di misure articolato come quello europeo è operazione non facile, e comunque assai più impegnativa della valutazione dei costi. Il primo motivo è che l’operazione architettata dalla Commissione europea non è solo un pacchetto di direttive sulle emissioni di CO2 delle industrie europee o sullo stimolo alle fonti rinnovabili di energia. È ben di più, se consideriamo come parte integrante del disegno la proposta di direttiva sulla cattura e lo stoccaggio del carbonio, la direttiva già recepita sull’efficienza degli usi finali dell’energia e i servizi energetici e soprattutto lo Strategic Energy Technology  Plan,un importante documento che contiene misure relative alla pianificazione, realizzazione, risorse e cooperazione internazionale nel campo delle tecnologie energetiche. (4)
Il secondo motivo è che l’obiettivo di questa complessa manovra non è uno solo, ma molteplici. Non solo si vuole contribuire alla lotta ai cambiamenti climatici, ma anche accrescere l’indipendenza energetica, particolarmente dalle fonti fossili di importazione. Si vuole dare un impulso decisivo a un nuovo modello di sviluppo, quello dell’economia a basso tenore di carbonio, conquistando la leadership sui mercati delle nuove tecnologie energetiche, promuovendo la nascita o la diffusione di nuove industrie e settori produttivi, cambiando permanentemente le modalità di produzione e di consumo, e con esse le abitudini dei cittadini europei. Si vuole presumibilmente infine riconquistare un ruolo di primo piano nello scenario geopolitico dove si affacciano nuovi e rilevanti attori.

PREFERENZE RIVELATE

Se si è convinti di tutto ciò, si converrà allora che quantificare i benefici dell’intera manovra è difficile e, nel caso di molti , praticamente impossibile. Vi sarebbe però un argomento che, nella sua semplicità, potrebbe essere guardato come risolutivo. Poggiando sull’assunto della razionalità, l’economista direbbe che se osserviamo individui e organizzazioni effettuare certe scelte, in presumibile presenza di alternative, allora dobbiamo dedurre che ciò corrisponde alla soluzione preferita, quella ritenuta migliore. Gli economisti le chiamano “preferenze rivelate”. Se osserviamo un gruppo nutrito di paesi avanzati che consapevolmente e concordemente approva un siffatto pacchetto di misure, allora “deve essere vero” che per ognuno di essi i benefici (il più estesamente definiti) superano i costi. Due esempi su tutti. Secondo le ultime rilevazioni della Convenzione quadro sui cambiamenti climatici dell’Onu, la Spagna è terza dopo Canada e Giappone a essere più distante dall’obiettivo di Kyoto, quello che va centrato entro fine 2012. (5) Pur tuttavia non abbiamo visto gli iberici mettersi a capo della fiera opposizione al pacchetto clima europeo. Il Regno Unito sta per approvare definitivamente una nuova legge, il Climate Change Bill, che imporrà al paese l’obbligo di ridurre le emissioni dell’80 per cento rispetto ai livelli del 1990 entro il 2050. La legge in arrivo, per raggiungere l’obiettivo, legalmente vincolante, garantisce una voce di spesa apposita nel bilancio statale, con un budget che sarà rivisto ogni cinque anni assieme a una commissione indipendente di esperti di cambiamenti climatici, “per evitare che i politici decidano sulla base delle pressioni del momento”, secondo le parole di Ed Miliband, segretario di stato per l’Energia e i cambiamenti climatici del governo britannico. (6) Altro che l’Italia.
Se dovessimo comunque tentare una rassegna dei benefici attesi del pacchetto clima, potremmo iniziare articolando il discorso secondo gli obiettivi che intende perseguire. La riduzione delle emissioni di gas-serra conduce essenzialmente a valutare i danni evitati. E questi ricomprendono numerose conseguenze negative, anche se molte ancora non si vedono alle nostre latitudini. Ma ci sarà un buon motivo se, dopo il programma di evacuazione che il governo indonesiano prepara per gli abitanti delle isole a rischio innalzamento dei mari, leggiamo che il nuovo presidente delle Maldive, Mohamed Nasheed, ha annunciato un fondo per finanziare l’acquisto di un “nuovo paese” se l’arcipelago fosse sommerso, causa riscaldamento globale, dall’oceano Indiano. (7) Tra gli effetti più chiaramente percepibili vi sono gli episodi climatici estremi, come l’ondata di calore del 2003. Secondo l’Organizzazione mondiale per la salute (Who)più di52mila europei morirono durante quell’estate. Ma questo è solo un esempio, forse il più significativo, delle conseguenze che si potrebbero attenuare, se non evitare del tutto, con un’azione incisiva a riduzione delle emissioni. (8) Secondo unostudio, commissionato dalla Heal (Health and Environment Alliance), dalla Can (Climate Action Network) e dal Wwf, il risparmio di spese sanitarie stimato per il target di emissioni del 20 per cento, sarebbe di 51 miliardi di euro, ma salirebbe a oltre 76 miliardi se il taglio fosse del 30 per cento.
Quanto al tema della sicurezza energetica, il pacchetto clima consentirebbe all’Italia di risparmiare fino a 12,3 miliardi di euro di importazioni di petrolio e gas secondo le valutazioni di impatto della stessa Commissione europea. Vale la pena ricordare che nel 2005 più del 54 per cento dell’energia consumata in Europa era importata da paesi terzi. Come valutare i costi non monetari di una minore dipendenza dalla politica di pressione che la Russia esercita sull’Unione, quando si ricordi che quel paese soddisfa il 18,1 per cento della domanda europea di energia primaria? Questi minori costi, che non sono solo di minori importazioni, ma che sono anche di minori rischi, di diminuito potere di monopolio sono certamente di difficile quantificazione.
Più semplice è, per così dire, valutare i benefici per giro d’affari e occupazione che il pacchetto clima produrrebbe nell’industria delle fonti di energia rinnovabile. L’industria europea delle rinnovabili impiega oggi più di 400mila persone con un giro d’affari di 40 miliardi di euro. Secondo un recente rapporto di Erec, l’associazione europea dei produttori di rinnovabili, al 2020 il settore garantirà 2 milioni di posti di lavoro. Secondo l’Aper, l’associazione italiana, una chiara politica di promozione delle fonti rinnovabili e della filiera industriale collegata può significare per l’Italia nei prossimi dodici anni investimenti privati per oltre 50 miliardi di euro e la creazione di nuova occupazione per più di 100mila addetti, offrendo inoltre un importante contributo allo sviluppo economico e sociale.(9) Lo stesso Barack Obama progetta di creare 5 milioni di nuovi posti di lavoro con un investimento da 150 miliardi di dollari in dieci anni in questo settore.
Contribuire a quello che l’Onu ha chiamato un “Global Green New Deal”, una rivoluzione che promette vantaggi anche per l’Europa, e per l’Italia, seppure non immediatamente quantificabili. E pure degli obblighi. Non va dimenticata la responsabilità storica che abbiamo in ordine alla crescita secolare delle emissioni. Non va dimenticato il principio di chi inquina paga. Ma andrebbe attentamente valutato il vantaggio da first mover che il pacchetto garantirebbe all’Unione nel mettere gli altri paesi di fronte alle proprie responsabilità, forse già a Copenhagen 2009, e nel condizionare l’esito del negoziato. Con quali benefici globali netti?

 

(1)Se non si dovesse arrivare a una decisione definitiva Sarkozy ha ventilato la possibilità di convocare tra Natale e Capodanno un consiglio straordinario dopo il pronunciamento dell’Europarlamento sul pacchetto di direttive energia-clima.
(2)Si vedano le dichiarazioni rese al Corriere della sera del 3 dicembre 2008.
(3)Rapporto disponibile a http://ec.europa.eu/public_opinion/archives/ebs/ebs_300_full_en.pdf, del settembre 2008 su sondaggio condotto a maggio.
(4)Decreto legislativo del 5/6/2008 che attua nel nostro ordinamento la direttiva 2006/32/Ce. Il provvedimento recepisce la direttiva che obbliga l’Italia a ridurre i consumi del 10% entro il 2016. Il Set Plan si trova all’indirizzo http://ec.europa.eu/energy/technology/set_plan/set_plan_en.htm.
(5)Si veda per esempio alla pagina http://unfccc.int/press/items/2794.php.
(6)
Informazioni dal sito http://www.kyotoclub.org/index.php?go=30b603&.
(7)
http://www.guardian.co.uk/environment/2008/nov/10/maldives-climate-change.
(8)
Sulle ondate di calore si veda lo studio del Who del 2004 http://www.euro.who.int/document/e82629.pdf.Un esaustivo rapporto sugli impatti in Europa si trova presso l’Agenzia europea per l’ambiente all’indirizzo http://reports.eea.europa.eu/climate_report_2_2004/en.La stima di 51 miliardi di euro è calcolata sulla base delle spese derivanti dalle cure mediche, dalla perdita di giorni di lavoro e dai costi sostenuti dagli ospedali. La Commissione europea stima che ogni anno 369mila persone muoiano prematuramente a causa dell’inquinamento atmosferico, e che queste morti premature e le cure mediche associate all’inquinamento costino il 3-9% del Pil europeo. I co-benefici calcolati per i cittadini europei sono il risultato delle riduzioni che si avrebbero di tutti quegli inquinanti che derivano dal taglio delle emissioni di CO2, come il biossido di zolfo (SO2), l’ossido di azoto (Nox) e il particolato (polveri sottili, Pm). Si veda http://ilcorrieredelweb.blogspot.com/2008/10/wwf-riduzione-del-30-di-gas-serra-un.html.
(9)Rapporto “Renewable Energy Technology Roadmap – 20% by 2020” http://www.erec.org/fileadmin/erec_docs/Documents/Publications/Renewable_Energy_Technology_Roadmap.pdf.In rete si trova un’interessante ed esaustiva rassegna dal titolo “Jobs from Renewable Energy and Energy Efficiency” relativa ai vari studi condotti al proposito: http://www.eesi.org/files/green_jobs_factsheet_102208.pdf.